Maria Francesca Zeuli 2004

“La sensibilità di scovare materiali di scarto riqualificabili in chiave squisitamente formale e alcune volta allusiva, la conoscenza delle possibilità fisiche di questi materiali (soprattutto ferrosi) e l’abilità del comporre oggetti che nello spazio producono mutevoli danze e percezioni possono dirsi le caratteristiche anche solo intuitivamente peculiari di Paolo Camiz.

Il gesto del domare un materiale da costruzione così duro, solido, eppure così flessibile e duttile come il ferro deve aver fascinato le attitudini creative di Camiz, tanto da portarlo a confrontarsi inizialmente con la linea quasi grafica del tondino di ferri, che realizza dei veri e propri ‘disegni spaziali’, come egli stesso li chiama; si tratta di un misurarsi complesso, tra la libertà dell’idea che genera la forma e limiti concessi dalle possibilità fisiche della materia, interessante e ancestrale problema dell’Uomo nell’incontro/scontro con la Natura (tra l’altro, in questo caso, una natura già in parte modificata da processi industriali): ‘Il tondino di ferro, piegato a mano e a freddo, si ribella a molte proposte dell’artista e occorre raggiungere un compromesso tra quel che si vorrebbe e quel che si può realizzare’ afferma Camiz, e prosegue ‘Il risultato è anche la soluzione  di un problema fisico: in che modo e in che ordine applicare le forze per ottenere una deformazione permanente e irreversibile, oltrepassano i limiti  di elasticità del materiale?’ Ecco che la conoscenza scientifica  si fonde con l’arte, mettendovisi al servizio, ecco che la curiosità dello scienziato per la comprensione delle leggi che regolano azione e reazione degli elementi naturali si riversa nell’entusiasmato gioco creativo dell’arte.

Negli anni novanta, al filone delle opere con i tondini si affianca quello degli assemblaggi: dal ‘piegare’ il materiale trovato, già in parte deformato, assecondandone le curve o forzandone l’andamento delle linee, al ‘saldarlo’, ricucendo nell’unità di una forma la frammentarietà di pezzi trovati ‘un po’ dappertutto’. Ciò che Camiz utilizza per le sue opere, infatti, è sempre ferro vecchio, ossia ferro vissuto, degradato e modificato da eventi naturali, deformato dall’uso o corroso dal tempo o da agenti climatici, dunque una materia con una storia e forse per questo più interessante negli effetti che manifesta e che muteranno ancora, e di questo Camiz è consapevole, nello scorrere del tempo: sinuosità insolite, slabbrature, bagliori mutevoli, da lucenti a opachi, a rugginosi.

Anche l’individuazione degli elementi che costituiranno l’opera contribuiscono al processo creativo e si caricano del sottile ed ecologico fascino del riciclo: gli objets trouvés di duchampiana memoria, decontestualizzati e rettificati dall’artista, assumono forme e possibilità espressive sorprendenti e stimolanti; ciò ancora di più quando nascono dall’aggregazione reiterata di uno stesso elemento nella serie delle Monomanie, laddove nell’unità dell’oggetto realizzato, contemporaneamente si intuisce e si perde il senso del singolo componente: anche in questo caso l’anima scientifica dell’autore emerge nella formulazione del problema all’origine di questi assemblaggi: egli stesso chiede ‘come si possono saldare insieme tanti pezzi uguali ottenendo un risultato interessante?’ ed individua in questa domanda un possibile quesito geometrico o chimico sostituendo al termine ‘pezzi’ il termine di ‘figure geometriche’ o di ‘atomi’: come scienziato cerca le leggi di equilibri statici, come artista struttura equilibri estetici”.

(Mostra “Scienziati Artisti” – Museo di Chimica – Università La Sapienza – Roma 2004)